martedì 25 luglio 2017

A volte piango un po'

Capita che sul nostro lettone, prima di dormire, si stia lì, a giocare, a guardare Leo saltare per 20 minuti consecutivi o fare altre cose sul confine del ricovero ospedaliero. E mentre lo guardo come Canova deve aver guardato Amore e Psiche dopo l'ultima levigata, in silenzio e di nascosto mi commuovo un po' perché pensò due coseLa prima è che sono la persona più felice della terra e sicuramente anche di Marte e Saturno. Mio figlio è straordinario e la cosa che amo più di lui è la bontà e la tenerezza che mostra verso tutto ciò che lo circonda: persone bianche, nere, gialle e anche verdi, e animali, anche quelli su due piedi. La seconda è che ho paura. Perché quando ami alla follia qualcuno ciò che temi e che gli possa accadere qualcosa oggi, domani o tra 10 anni. E lo vorresti proteggere dal mondo e dalle mille insidie di questa nostra contemporaneità stupida, distratta e arrogante. Puoi avere mille occhi, mille braccia per proteggerlo, mille attenzioni ma sai che sono gli attimi e le circostanze fortuite a fare la differenza. E che l'unico modo che hai per non pensare a tutto ciò che potrebbe accadere è far accadere tutto ciò che tu voglia che accada.

lunedì 30 maggio 2016

Undici mesi senza altro che te

È quasi mezzanotte. Dopo 11 mesi e qualche giorno da quando sei nato sono riuscito ad accendere la tv e a guardare qualcosa: due puntate di Gomorra, registrate. Ho bevuto una birra e mangiato le patatine dell'Ikea alla panna acida e cipolla, che di buono hanno che non te le devi friggere. 

Pensa che da quando sei nato la notte ho sempre lavorato per poter stare con te il più possibile quando eri sveglio. Stasera invece ho voluto fare una cosa che non facevo da tempo. 

Le nostre vite sono cambiate, tantissimo: tu sei la priorità e la nostra vita è completamente in funzione della tua. Adesso stai iniziando a camminare e io e mamma arriviamo a sera distrutti, sei una forza della natura, sei veloce e curiosissimo e hai un carattere niente male. Ogni giorno ci spremi per bene. Ma niente al mondo può valere quanto un minuto trascorso con te. 

Ho un solo rammarico, ovvero che nonostante una vita a giocare con le parole non troverò mai quelle giuste per dirti quanto ti amo senza essere banale e scontato. Non esistono quelle parole come non è possibile raccontare il nostro amore per te. Mi sono rassegnato che saremo i soli a capirlo... Come capita ad ogni mamma e ad ogni papà. E ora ti raggiungo.

venerdì 11 dicembre 2015

Profumi di te

Leo nella sua palestrina
Il tuo alito che sa sempre da latte.
La tua testa, che dall'alto bacio, e i tuoi capelli, con cui mi accarezzo le guance e il mento mentre ti tengo in braccio.
Le tue mani, sempre calde, che sanno di tutto e di buono.
I tuoi piedini, che annuso ogni volta che posso.
Le tue orecchie e i tuoi occhi, perché anche essi hanno un profumo.
Dietro le tue orecchie e dietro il tuo collo.
La pelle del tuo pancino.
I tuoi vestiti: li butto a lavare ma prima mi ci immergo con il viso e sorrido e poi torno indietro perché già mi manchi.
La tua crema, quando ti cambio; poi vado a fare la spesa e al supermercato passo il tempo con le mani al naso.
L'amido di riso del tuo bagnetto.
Il profumo della tua totalità, ovvero ciò che riuscirei a distinguere in mezzo a mille altri. 
Il profumo di te, della mia vita, della nostra gioia.

mercoledì 18 novembre 2015

I tuoi e i nostri primi cinque mesi

Mamma Irene e Leo
Il mio ultimo post su questo blog risale allo scorso 28 ottobre. Tre giorni dopo sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro e quattro giorni dopo sarebbe iniziato il mio nuovo incarico di papà a tempo pieno. I giorni trascorsi tra quel post e quello di oggi parlano da soli. Sono stato splendidamente impegnato h24 con Leo e Irene, e a parte qualche piccolo impegno di lavoro, siamo stati sempre insieme. Tutti e tre siamo andati in giro, a seguire i lavori della nostra nuova casa, a scegliere il caminetto, a passeggiare, a goderci il nostro tempo senza orologio.

Oggi voglio raccontarvi i primi cinque mesi di Leo, compiuti il 15 novembre. Lo faccio in treno verso Milano perché a casa forse non avrei avuto tempo, per dire. Sono stati 152 giorni di un nuovo corso. Giorni che vivono di vita propria, ognuno con un ricordo appiccicato sopra.

Forse è questa la vera “grande bellezza”: un bambino ti regala qualcosa di nuovo ogni giorno. C'è una frase ritrita: “ogni giorno una scoperta”: è proprio così. Per lui e per noi. Dalla prima volta in cui, in modo volontario, con la manina ha toccato il mio viso, al primo urlo per provare la voce, alla cantilena rauca; dalla prima risata travolgente e incessante fino al giorno in cui è riuscito a rimanere seduto da solo. Passando per il primo cucchiaino di frutta, per la prima vacanza e per altre mille prime volte. Ma anche per il primo pianto a dirotto, per la prima notte in bianco, per i primi fastidi dentali e per altre mille prime volte meno belle ma assolutamente essenziali nella crescita di tutti e tre.

In questi cinque mesi Leo è passato da 3,5 chili a 7,5. Da 54 a 72 centimetri. Ma non è stato l'unico a crescere. Io e Irene siamo diventati genitori. O meglio: stiamo diventando genitori. Stiamo crescendo anche noi. Stiamo imparando ogni giorno qualcosa di nuovo, con stupore e sorpresa quotidiani. Con le nostre cappelle, con i nostri errori, con le nostre intuizioni. Abbiamo gioito e fatto fatica. Insieme. Con la salda convinzione che siamo noi a doverci adattare alle sue esigenze e non viceversa, che quando Leo piange è perché qualcosa non va e non perché ha il piacere di rompere. Perché “una mamma lo sa”. Perché “un papà lo sa”.

Io ho la testa in aria. Dimentico le cose. Sono rilassato. Lascio in giro il telefono. Mi perdo a giocare in palestrina con Leo. Mi ubriaco di momenti. Questa notte Irene era andata in bagno. Leo era nel nostro letto e si muoveva, in dormiveglia. L'ho preso in braccio mentre ero seduto nel letto, a gambe incrociate. Lui si è rannicchiato in modo quasi fetale e si è nascosto tra le mie braccia. Era piccolissimo.

Ogni giorno è scandito da un ricordo. E potrei raccontarvi quello di ieri e quello di ieri l'altro. Perché quando chiudo la porta di casa nostra, il nostro mondo prende vita e quello imperfetto e psicopatico rimane fuori. Il nostro è un mondo perfetto e autonomo. So che non sarà sempre così, ma se ci pensi non lo vivi. E, mentre scrivo, è iniziato il sesto mese. Buona vita a noi.

mercoledì 28 ottobre 2015

E poi quando ti svegli...

Io e Leo durante una libera uscita senza mamma
Sarebbe impossibile raccontare qui tutti i momenti fantastici che mi regalano 24 ore con Leo. Ogni minuto è un ricordo, ogni ora un pezzo di vita trascorso insieme che custodirò per sempre, anche quando avrà i piercing e utilizzerà il "cioè" come intercalare (farò tutto per proteggerlo, non dai piercing ma dal sanguinosissimo "cioè"). Questi, per esempio, sono i giorni in cui si "morde" il labbro inferiore e fa strani rumori tipo ventosa. È divertentissimo (e sempre emozionante come ogni cosa nuova), ma appena scoppiamo a ridere si offende e smette subito.

Però c'è un momento che si ripete tutti i giorni e che per me è il più bello e dolce in assoluto. Perché è quello in cui mi appare maggiormente indifeso e tenerissimo. È il risveglio dopo la notte o dopo il riposino. Apre gli occhi, serissimo. Si guarda in giro e dopo aver appurato che non si trova in un campo di prigionia, inizia a riempirci di sorrisi e carezze, a destra e a sinistra, al papà e a mamma Irene. E, mentre inizia l'accuratissima fase di stiracchiamento, continua a farsi coccolare. Mentre mi fa le carezze poi scoppia a ridere perché gli fa solletico la barba sulle mani. 

Sì, è davvero bellissimo esserci in quel momento. E proprio mentre sono lì, di solito appollaiato in malo modo ai piedi del letto o del divano, che tutto intorno a noi improvvisamente sparisce e perde colore, e quei pochi centimetri diventano il centro dell'universo. Un centro dei colori dell'arcobaleno in cui tutto è perfettamente compiuto. Dita nel naso, graffi alle gengive, mani insalivate spiaccicate sugli occhiali. E io e la sua mamma a penzolare dai suoi occhi pieni di vita: "continua amore, continua!". 

Ma tutto ha drammaticamente un inizio e una fine. E, dopo alcuni minuti in cui ci si è concesso, Leo decide che è ora di finirla con le smancerie e dice "basta, ora vai a cambiarmi babbeo, che razza di giochi fai? Non sai che ho già 4 mesi e mezzo?". E io, mortificato, obbedisco, lo carico in braccio e lo porto sul fasciatoio e... si ricomincia! 

Sin dai primi giorni Leo ha eletto il fasciatoio a porto sicuro, a base logistica, a bunker anti-atomico: quando è lì si diverte un sacco e quando i primi giorni scoppiava a piangere, bastava adagiarlo lì per far cessare le lacrime all'istante. E allora di nuovo solletico, baci rumorosissimi sulla sua pancetta, annusamenti di piedini sudati e fitto dialogo con Cippi, un uccellino di pelo attaccato ad un rubinetto con cui Leo si con confronta sui grandi temi internazionali. E quando io sono ormai lanciatissimo, mi sto divertendo un monte producendo vocine irripetibili, ecco che in un momento Leo ristabilisce le gerarchie: pipì, improvvisa e incontenibile, che di solito cerco di arginare con la mano. E lui, finita la prestazione balistica, mi guarda e sorride: "bravo babbo, bella presa, ma puoi fare di meglio".  

E allora si ricomincia  e non si finisce mai.

giovedì 15 ottobre 2015

L'identità di padre

BennyPapà e il piccolo Leo
In ogni fase della nostra vita siamo stati qualcosa. Ci siamo definiti (o siamo stati definiti) in un certo modo. Siamo stati il lavoro che facevamo in quel momento, un nostro hobby, una caratteristica di noi. A memoria sono stato prima scolaro, poi liceale, attivista politico, cronista, universitario, stagista, scrittore, speaker radiofonico, opinionista tv, pr e un po' d'altro. Diciamo che generalmente la nostra professione ci ha sempre identificati, all'esterno e con noi stessi. Con orgoglio o meno.

Quando è nato Leo, intendo nel momento esatto, mi sono sentito perfettamente definito dall'essere suo padre, senza necessità di essere o sentirmi altro. Mi spiego: non mi importava essere l'altisonante coordinatore della radio ufficiale di una squadra di Serie A, né il responsabile della comunicazione di un grande parco sportivo, né altre cose che facevo all'epoca. In quel momento mi sentivo prima di ogni altra cosa il papà di Leo. Una "condizione" che mi riempiva d'orgoglio. "Ciao, sono Benny, sono il papà di Leo". Punto. Senza avvertire alcuna frustrazione nell'essere "solo" un padre e non un astrofisico o uno scrittore da best seller.

Non è un discorso puramente teorico. Quando è nato Leo ho lasciato alcuni lavori e alcune collaborazioni che avevo in essere. Ho tenuto solo un'attività da otto ore al giorno in modo da essere a casa il prima possibile. A breve lascerò anche questa e mi dedicherò ad altre attività che mi consentano di stare il più possibile a casa e lavorare da pc. Non so se questo danneggerà la mia carriera e la mia crescita professionale. La verità è che, giusto o sbagliato, me ne frega poco. Io voglio essere il miglior papà possibile per Leo, tutto il resto viene e verrà decisamente dopo.

Voglio esserci in ogni istante della mia vita di mio figlio. Finché lui vorrà. Gli garantirò un futuro adattando la mia vita lavorativa a lui. Questo perché odio i rimpianti, non mi perdono gli errori. Lavoravo dodici ore al giorno. Tra dieci anni sarei stato certamente più ricco di quanto non sarò. Ma avrei ripetuto frasi che sento spesso in giro: "che peccato non essermi goduto di più mio figlio". Io lo sto facendo e voglio farlo finché potrò. Sarà meglio avere un rimpianto lavorativo che un rimpianto da genitore. Mio figlio è il mio mondo, tutto.

P.s. Questa è la mia vita. Questa è la mia storia. Non voglio e non posso generalizzare. Non mi metto nei panni di chi sarebbe disposto a tutto pur di lavorare e che magari leggendo questo post si è indisposto. Racconto solo di me stesso. Senza moralismi e retorica.

mercoledì 7 ottobre 2015

Il mestiere di mamma

Mamma Irene mentre allatta
Ci sono cose che puoi raccontare in modo eccellente. Puoi riuscire a farle vivere ai tuoi lettori mentre essi leggono. Puoi far vedere loro, tramite la tua penna, qualcosa che hai vissuto. Ce ne sono altre ("per fortuna" dirà qualcuno) che mai nessuno riuscirà a declinare in parole senza privarle del loro valore reale. Raccontare cosa voglia dire essere mamma, dal punto di vista del papà, è una di queste. 

Leo il 15 ottobre compirà 4 mesi. Mesi di cui ricordo uno per uno i giorni. Mesi in cui ho cercato di esserci il più possibile (riuscendoci, credo). In questo periodo ho ovviamente continuato a lavorare limitando i miei orari, cercando di volare a casa subito dopo, passando spesso per poco elastico o addirittura scansafatiche. No, nonostante questo non posso dire di aver vissuto 24 ore su 24 con lui. Irene sì, lei può dirlo. Ogni ora sicuramente, forse quasi tutti i minuti. Lei lo ha allattato, lo ha addormentato, lo ha calmato, lo ha fatto ridere la prima volta e consolato all'ultimo pianto. Ogni giorno, ogni ora. Anche ora mentre io scrivo. Lei c'è sempre stata. E sempre ha un solo significato. 

Io ci sarei riuscito? L'uomo (io) fa un gesto che una mamma non contempla: quando non riesce a consolare o addormentare il bambino, quando la situazione non è semplice, lo cede alla mamma. Come se ad essa fosse affidato il compito di supplire alle mancanze o incapacità del padre, come se lei (e solo lei) avesse sempre in tasca, come le monete, il modo per risolvere tutto. Io sapevo bene (e da molti anni) che Irene possedeva una forza dirompente. Chi la conosce lo sa, non voglio qui raccontare come e perché sia diventata di ferro senza però perdere la dolcezza. Ma la forza, la determinazione, la dedizione, l'amore e l'intelligenza che servono a crescere un figlio hanno coefficienti altissimi. Che a volte anche donne eccezionali nella vita quotidiana non riescono a raggiungere. Irene, nella sua per me eroica quotidianità, sta eccellendo in ogni aspetto. 

Una mamma è capace di anteporre il proprio figlio a tutto. Sembra una frase fatta. Intendo anche a cose banali: io riuscirei a non dormire 24 ore e rimanere lucido, reattivo e dolce con il mio bambino (che, beninteso, amo più di ogni altra cosa)? Io riuscirei a gestirlo 24 ore su 24? Per non parlare dei sacrifici e dei dolori della gravidanza e del parto (ho bisogno dell'epidurale al solo pensiero). Con tutta sincerità non credo. 

Mi rendo conto che può sembrare un insieme di frasi retoriche. Ma fidatevi: chi non vive accanto ad una mamma non può minimamente immaginare cosa voglia dire essere una mamma. È un lavoro, il più bello del mondo, ma allo stesso tempo il più complesso che possa esistere. Ho la fortuna di avere un figlio che è la gioia e la vita in carne ed ossa, ma ho il privilegio di crescerlo insieme ad una super mamma che non ha paura di nulla e supplisce anche alle mie mancanze di uomo normale. 

Noi italiani diciamo sempre una cosa che fa ridere gli stranieri (sì, anche quelli che truccano le auto): "la mamma è sempre la mamma". Fino a quattro mesi fa era pura retorica, ora è la dimostrazione empirica di un teorema: la mamma è più di metà, la mamma è un po' meno di tutto.