mercoledì 28 ottobre 2015

E poi quando ti svegli...

Io e Leo durante una libera uscita senza mamma
Sarebbe impossibile raccontare qui tutti i momenti fantastici che mi regalano 24 ore con Leo. Ogni minuto è un ricordo, ogni ora un pezzo di vita trascorso insieme che custodirò per sempre, anche quando avrà i piercing e utilizzerà il "cioè" come intercalare (farò tutto per proteggerlo, non dai piercing ma dal sanguinosissimo "cioè"). Questi, per esempio, sono i giorni in cui si "morde" il labbro inferiore e fa strani rumori tipo ventosa. È divertentissimo (e sempre emozionante come ogni cosa nuova), ma appena scoppiamo a ridere si offende e smette subito.

Però c'è un momento che si ripete tutti i giorni e che per me è il più bello e dolce in assoluto. Perché è quello in cui mi appare maggiormente indifeso e tenerissimo. È il risveglio dopo la notte o dopo il riposino. Apre gli occhi, serissimo. Si guarda in giro e dopo aver appurato che non si trova in un campo di prigionia, inizia a riempirci di sorrisi e carezze, a destra e a sinistra, al papà e a mamma Irene. E, mentre inizia l'accuratissima fase di stiracchiamento, continua a farsi coccolare. Mentre mi fa le carezze poi scoppia a ridere perché gli fa solletico la barba sulle mani. 

Sì, è davvero bellissimo esserci in quel momento. E proprio mentre sono lì, di solito appollaiato in malo modo ai piedi del letto o del divano, che tutto intorno a noi improvvisamente sparisce e perde colore, e quei pochi centimetri diventano il centro dell'universo. Un centro dei colori dell'arcobaleno in cui tutto è perfettamente compiuto. Dita nel naso, graffi alle gengive, mani insalivate spiaccicate sugli occhiali. E io e la sua mamma a penzolare dai suoi occhi pieni di vita: "continua amore, continua!". 

Ma tutto ha drammaticamente un inizio e una fine. E, dopo alcuni minuti in cui ci si è concesso, Leo decide che è ora di finirla con le smancerie e dice "basta, ora vai a cambiarmi babbeo, che razza di giochi fai? Non sai che ho già 4 mesi e mezzo?". E io, mortificato, obbedisco, lo carico in braccio e lo porto sul fasciatoio e... si ricomincia! 

Sin dai primi giorni Leo ha eletto il fasciatoio a porto sicuro, a base logistica, a bunker anti-atomico: quando è lì si diverte un sacco e quando i primi giorni scoppiava a piangere, bastava adagiarlo lì per far cessare le lacrime all'istante. E allora di nuovo solletico, baci rumorosissimi sulla sua pancetta, annusamenti di piedini sudati e fitto dialogo con Cippi, un uccellino di pelo attaccato ad un rubinetto con cui Leo si con confronta sui grandi temi internazionali. E quando io sono ormai lanciatissimo, mi sto divertendo un monte producendo vocine irripetibili, ecco che in un momento Leo ristabilisce le gerarchie: pipì, improvvisa e incontenibile, che di solito cerco di arginare con la mano. E lui, finita la prestazione balistica, mi guarda e sorride: "bravo babbo, bella presa, ma puoi fare di meglio".  

E allora si ricomincia  e non si finisce mai.

giovedì 15 ottobre 2015

L'identità di padre

BennyPapà e il piccolo Leo
In ogni fase della nostra vita siamo stati qualcosa. Ci siamo definiti (o siamo stati definiti) in un certo modo. Siamo stati il lavoro che facevamo in quel momento, un nostro hobby, una caratteristica di noi. A memoria sono stato prima scolaro, poi liceale, attivista politico, cronista, universitario, stagista, scrittore, speaker radiofonico, opinionista tv, pr e un po' d'altro. Diciamo che generalmente la nostra professione ci ha sempre identificati, all'esterno e con noi stessi. Con orgoglio o meno.

Quando è nato Leo, intendo nel momento esatto, mi sono sentito perfettamente definito dall'essere suo padre, senza necessità di essere o sentirmi altro. Mi spiego: non mi importava essere l'altisonante coordinatore della radio ufficiale di una squadra di Serie A, né il responsabile della comunicazione di un grande parco sportivo, né altre cose che facevo all'epoca. In quel momento mi sentivo prima di ogni altra cosa il papà di Leo. Una "condizione" che mi riempiva d'orgoglio. "Ciao, sono Benny, sono il papà di Leo". Punto. Senza avvertire alcuna frustrazione nell'essere "solo" un padre e non un astrofisico o uno scrittore da best seller.

Non è un discorso puramente teorico. Quando è nato Leo ho lasciato alcuni lavori e alcune collaborazioni che avevo in essere. Ho tenuto solo un'attività da otto ore al giorno in modo da essere a casa il prima possibile. A breve lascerò anche questa e mi dedicherò ad altre attività che mi consentano di stare il più possibile a casa e lavorare da pc. Non so se questo danneggerà la mia carriera e la mia crescita professionale. La verità è che, giusto o sbagliato, me ne frega poco. Io voglio essere il miglior papà possibile per Leo, tutto il resto viene e verrà decisamente dopo.

Voglio esserci in ogni istante della mia vita di mio figlio. Finché lui vorrà. Gli garantirò un futuro adattando la mia vita lavorativa a lui. Questo perché odio i rimpianti, non mi perdono gli errori. Lavoravo dodici ore al giorno. Tra dieci anni sarei stato certamente più ricco di quanto non sarò. Ma avrei ripetuto frasi che sento spesso in giro: "che peccato non essermi goduto di più mio figlio". Io lo sto facendo e voglio farlo finché potrò. Sarà meglio avere un rimpianto lavorativo che un rimpianto da genitore. Mio figlio è il mio mondo, tutto.

P.s. Questa è la mia vita. Questa è la mia storia. Non voglio e non posso generalizzare. Non mi metto nei panni di chi sarebbe disposto a tutto pur di lavorare e che magari leggendo questo post si è indisposto. Racconto solo di me stesso. Senza moralismi e retorica.

mercoledì 7 ottobre 2015

Il mestiere di mamma

Mamma Irene mentre allatta
Ci sono cose che puoi raccontare in modo eccellente. Puoi riuscire a farle vivere ai tuoi lettori mentre essi leggono. Puoi far vedere loro, tramite la tua penna, qualcosa che hai vissuto. Ce ne sono altre ("per fortuna" dirà qualcuno) che mai nessuno riuscirà a declinare in parole senza privarle del loro valore reale. Raccontare cosa voglia dire essere mamma, dal punto di vista del papà, è una di queste. 

Leo il 15 ottobre compirà 4 mesi. Mesi di cui ricordo uno per uno i giorni. Mesi in cui ho cercato di esserci il più possibile (riuscendoci, credo). In questo periodo ho ovviamente continuato a lavorare limitando i miei orari, cercando di volare a casa subito dopo, passando spesso per poco elastico o addirittura scansafatiche. No, nonostante questo non posso dire di aver vissuto 24 ore su 24 con lui. Irene sì, lei può dirlo. Ogni ora sicuramente, forse quasi tutti i minuti. Lei lo ha allattato, lo ha addormentato, lo ha calmato, lo ha fatto ridere la prima volta e consolato all'ultimo pianto. Ogni giorno, ogni ora. Anche ora mentre io scrivo. Lei c'è sempre stata. E sempre ha un solo significato. 

Io ci sarei riuscito? L'uomo (io) fa un gesto che una mamma non contempla: quando non riesce a consolare o addormentare il bambino, quando la situazione non è semplice, lo cede alla mamma. Come se ad essa fosse affidato il compito di supplire alle mancanze o incapacità del padre, come se lei (e solo lei) avesse sempre in tasca, come le monete, il modo per risolvere tutto. Io sapevo bene (e da molti anni) che Irene possedeva una forza dirompente. Chi la conosce lo sa, non voglio qui raccontare come e perché sia diventata di ferro senza però perdere la dolcezza. Ma la forza, la determinazione, la dedizione, l'amore e l'intelligenza che servono a crescere un figlio hanno coefficienti altissimi. Che a volte anche donne eccezionali nella vita quotidiana non riescono a raggiungere. Irene, nella sua per me eroica quotidianità, sta eccellendo in ogni aspetto. 

Una mamma è capace di anteporre il proprio figlio a tutto. Sembra una frase fatta. Intendo anche a cose banali: io riuscirei a non dormire 24 ore e rimanere lucido, reattivo e dolce con il mio bambino (che, beninteso, amo più di ogni altra cosa)? Io riuscirei a gestirlo 24 ore su 24? Per non parlare dei sacrifici e dei dolori della gravidanza e del parto (ho bisogno dell'epidurale al solo pensiero). Con tutta sincerità non credo. 

Mi rendo conto che può sembrare un insieme di frasi retoriche. Ma fidatevi: chi non vive accanto ad una mamma non può minimamente immaginare cosa voglia dire essere una mamma. È un lavoro, il più bello del mondo, ma allo stesso tempo il più complesso che possa esistere. Ho la fortuna di avere un figlio che è la gioia e la vita in carne ed ossa, ma ho il privilegio di crescerlo insieme ad una super mamma che non ha paura di nulla e supplisce anche alle mie mancanze di uomo normale. 

Noi italiani diciamo sempre una cosa che fa ridere gli stranieri (sì, anche quelli che truccano le auto): "la mamma è sempre la mamma". Fino a quattro mesi fa era pura retorica, ora è la dimostrazione empirica di un teorema: la mamma è più di metà, la mamma è un po' meno di tutto.